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LO PSICOLOGO AL LAVORO NELLA SCUOLA MODELLI E STRUMENTI OPERATIVI AD ORIENTAMENTO PSICOANALITICO

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LO PSICOLOGO AL LAVORO NELLA SCUOLA MODELLI E STRUMENTI OPERATIVI  AD ORIENTAMENTO PSICOANALITICO  Empty LO PSICOLOGO AL LAVORO NELLA SCUOLA MODELLI E STRUMENTI OPERATIVI AD ORIENTAMENTO PSICOANALITICO

Messaggio Da Irene Battaglini Dom Dic 30, 2012 11:57 am

di Franco Bruschi – Paola Carboncini - Barbara Ferri - Anna Molli
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La psicologia scolastica « è una disciplina relativamente nuova nel panorama europeo e in forte sviluppo nella società occidentale » (risale, secondo G. Petter, solo agli inizi del secolo scorso).
La scuola, infatti, è il luogo dove i giovani si formano sul piano della conoscenza e quello umano, in essa avvengono una serie di processi di relazioni emotive, anche inconsce, fra gli allievi e fra questi ultimi e il corpo insegnante (dimensione emotiva dell'apprendere e dell’insegnare) che sono alla base dell'apprendimento. L’apprendimento, infatti, non è solo una funzione cognitiva ma “affettivo-cognitiva” che si manifesta dentro un complesso di relazioni significative che, appunto, sono quelle con l’insegnante, con il gruppo-classe e con i genitori reali e interiorizzati e che ha, dunque, le sue radici nella storia affettiva di ognuno e nella dinamica interpersonale (I. Salzberger-Wittemberg, G. Polacco Williams, E. Osborne 1987).
La psicologia nella scuola è ormai una realtà necessaria sia per creare le condizioni che possono favorire, invece che ostacolare, la crescita degli allievi (G. Petter 2004), sia per aiutare gli insegnanti, gli alunni ed i genitori a meglio gestire le difficoltà di apprendimento, di relazione e di mentalizzazione delle esperienze emotive che avvengono dentro le aule.
Infatti, sempre più frequentemente, i giovani, non riuscendo ad esprimere il loro disagio, lo agiscono con fenomeni alquanto preoccupanti come il bullismo che da diversi anni si sta affermando anche in Italia. Questo fenomeno ha in sé la dimensione della conflittualità giovanile spesso aggressiva e distruttiva contro la relazione in genere e contro l’ambiente rappresentato dalla scuola, dalla famiglia e dalla società. Internamente possiamo pensare che certi giovani allievi vivano una dimensione scissa, ossia nel loro mondo interno non sia chiaro e distinto il problema del bene e del male e che la dimensione di confusione, smarrimento e onnipotenza prevalgano, come se a loro mancassero quegli oggetti buoni (figure genitoriali interiorizzate) con funzioni di guida e di sostegno. D’altra parte va considerato che le manifestazioni di disagio, di crisi, le tensioni e le contraddizioni che la società scarica dentro le aule delle nostre scuole e nelle famiglie costituiscono una delle sfide più ardue che si rinnovano giorno per giorno e che richiedono ai vari operatori della scuola e ai genitori immediatezza e prontezza di reazione, abbinate ad una costante conoscenza e formazione psicologica dell’età evolutiva.
Dunque, occorre capire, la natura del rapporto che esiste fra gli studenti, l’insegnante e la famiglia per poter successivamente intervenire. Ancora prima, occorre porsi in una dimensione di ascolto e di osservazione per cogliere le difficoltà, le paure, le difese e l’origine della natura dei problemi soggettivi e relazionali al fine di prevenire gli attacchi aggressivi dei giovani, i disturbi del comportamento e di apprendimento e l’instaurarsi della conflittualità verso gli insegnanti e l’istituzione scolastica, verso la famiglia e verso la società.
Per realizzare un progetto d’intervento all’interno dell’istituzione scolastica è necessario attivare la presa in carico attraverso un’attenta analisi dei bisogni espressi e non espressi provenienti dalla scuola stessa (committente). (*)
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(*) Nota: argomento tratto dalla relazione presentata dal dr. Franco Bruschi in collaborazione con la dott.ssa Annalisa Camellini, al Convegno “Psicologia per la scuola” - strumenti di intervento, ricerca, prospettive future – organizzato dalla “Commissione scuola” dell’ Ordine degli Psicologi della Toscana con la Regione Toscana , a Firenze, il 17 ottobre 2008.
Quando l’Istituzione scolastica si rivolge allo psicologo per attuare un intervento finalizzato ad affrontare e capire le problematiche interne occorre seguire una pratica di “ascolto e di riflessione” in modo da evitare soluzioni poco pensate e/o affrettate sulla base dell’emergenza/urgenza che spesso sono sollecitate dalle ansie e dalle paure degli insegnanti, dei genitori e talvolta della dirigenza. Queste dinamiche, se non correttamente gestite, possono attivare una soluzione inadeguata che tiene più conto del bisogno di fornire “una risposta” piuttosto che fornire una “risposta adeguata”. E’ importante quindi che lo psicologo riesca a funzionare da “filtro pensante” fra chi fa la richiesta e chi deve dare poi la risposta; occorre che eserciti e aiuti ad esercitare le capacità di saper aspettare, tollerare di non sapere, offrire soluzioni immediate e, talvolta, di non capire. Una “capacità negativa” a cui, come sosteneva Bion in “Attenzione e interpretazione” (1973), lo psicologo (psicoanaliticamente orientato) deve costantemente tendere e che è associata alla posizione depressiva. Consiste nella capacità di tollerare o cercare uno spazio mentale per “l’incertezza, il mistero e il dubbio” e di non avere sempre chiara nella propria mente la risoluzione dei problemi in termini di metodo e di strategia da seguire.
Il modello di riferimento dell’intervento dello psicologo nella scuola è basato su un’attenta analisi della domanda che comporta di assolvere ai seguenti punti:
1. Chi presenta il problema? Da chi è partita la proposta di chiamare lo psicologo per l’intervento? Che ruolo ha all’interno del contesto del problema? Ossia porsi delle domande su chi è l’inviante o il richiedente e capire da chi nasce il bisogno.
2. Descrizione del problema emergente: raccolta e registrazione delle problematiche e degli episodi che hanno generato la domanda .
3. Informarsi da chi altri è percepito il problema.
• Valutare la necessità di coinvolgere tutti gli attori per avere più informazioni ai fini di una condivisione dell’intervento e per fornire un contenimento per l’intervento stesso.
• Individuare le modalità dell’incontro.
4. In caso positivo (ossia quando il problema è percepito da più persone) informarsi sulla possibilità di costituire un “gruppo di lavoro” nel quale attivare delle idee e dei pensieri, uno spazio di discussione e di riflessione che coinvolga più parti in causa e possa dare voce ai vari punti di vista, partendo dall’idea che più menti insieme riescono in modo creativo e meglio di una sola a trovare il “focus” del problema ed elaborare le possibili soluzioni.
5. Da quanto tempo sussiste il problema?
6. Sono stati fatti tentativi precedenti di affrontare il problema? Se sì, con quale esito.
7. Quale obiettivo vogliono raggiungere i proponenti dell’intervento?
8. Quali aspettative si sono fatti gli attori sulle modalità di soluzione?
9. In quanto tempo pensano di attuarlo?
10. Quali altri agenti sono coinvolti nella risoluzione del problema (enti, istituzioni, altre professionalità: assistenti sociali, neuropsichiatri infantili, psicologi, mediatori culturali, ecc..) ? E’ utile allora costruire un lavoro di rete che tenga conto delle molteplici implicazioni relazionali che inevitabilmente si mettono in atto durante l’intervento.
11. Valutare l’opportunità o meno di contattare le altre professionalità per :
• una condivisione dell’intervento e la distribuzione di responsabilità;
• tenere conto delle difficoltà latenti rispetto al problema iniziale al fine di evitare processi difensivi e/o boicottaggi più o meno consapevoli nei confronti dell’intervento, soprattutto quando si “toccano” o si “modificano” assetti ed equilibri del sistema che fanno emergere contraddizioni e carenze.
12. Individuare chi è il committente:
• verificare se chi pone la domanda di aiuto è anche il committente, cioè l’ente (il Comune, la Regione, la Scuola) che finanzia il progetto d’intervento per valutare il suo ruolo all’interno del contesto, perché il committente deve condividere poi il progetto altrimenti sono possibili interferenze che ne vanificano la progettazione.
13. In base a quali finanziamenti si realizzano i progetti e come si pensa di intervenire?
14. Sottoporre il processo di analisi della domanda alla riflessione/supervisione dell’eventuale “equipe” di riferimento dello psicologo.
15. Proposta di intervento, presentando gli strumenti operativi e le risorse disponibili con l’obiettivo di creare “l’alleanza” col gruppo di lavoro interno alla scuola, verificandone la condivisione tramite un processo di feedback finalizzato al sostegno e alla realizzazione dell’intervento.
16. Organizzazione dell’intervento secondo obiettivi graduali (steps).
17. Monitoraggio delle varie fasi attraverso incontri programmati con la committenza e altri attori della rete.
18. Verifica finale di quanto è stato possibile raggiungere dell’obiettivo prefissato dal progetto.
Un esempio sul campo.
Per chiarire meglio il nostro modello di riferimento si è pensato di presentare sinteticamente l’applicazione sopra descritta condotta in un Istituto superiore della durata di due anni.
La domanda esplicita fatta agli psicologi partiva dall’ insegnante referente della psicologia scolastica, alla quale alcuni insegnanti dell’Istituto avevano chiesto l’intervento dello specialista con l’idea di avere una mediazione psicologica finalizzata a capire come affrontare i problemi emozionali e relazionali in alcune classi prime.
Le classi dove insegnavano i docenti richiedenti l’intervento erano molto problematiche e difficili per il numero degli allievi e per la loro provenienza extracomunitaria. Gli allievi erano poco motivati allo studio e provenienti da famiglie disagiate sul piano affettivo, economico e culturale. Inoltre essi attivavano nel gruppo-classe comportamenti dirompenti, talvolta violenti con episodi di bullismo, assumendo atteggiamenti irriguardosi anche verso i loro insegnanti con modalità onnipotenti e arroganti.
La nostra prima funzione è stata di contenimento delle ansie degli insegnanti e in parte della dirigenza scolastica, che rischiavano di attivare un feedback di ritorno da parte degli allievi. Successivamente abbiamo cercato di coinvolgere tutte le persone interessate in un “gruppo di lavoro” per raccogliere più informazioni possibili su come intervenire, dare una qualche risposta al loro senso d’impotenza e anche con il fine di condividere il progetto d’intervento.
Attraverso alcune riunioni preliminari fissate prima con l’insegnante coordinatore della classe e poi con gli insegnanti disponibili, abbiamo iniziato ad osservare, ascoltare e capire le loro idee in proposito, come veniva percepito il problema e quali erano le loro emozioni circolanti. Abbiamo cercato di sapere da quanto tempo si presentava il problema nell’Istituto (punto 5) e se erano stati fatti dei tentativi precedenti d’intervento per la sua risoluzione (punto 6), quali erano le aspettative da parte della scuola (fantasie) e quali erano gli obiettivi che speravano di raggiungere attraverso il nostro intervento (punti 7 e 8 ). Quello che era emerso da tali riunioni era che il problema si presentava ogni anno per il fatto che confluivano all’interno delle classi gli allievi licenziati dalle scuole medie della zona con poca motivazione allo studio, disagiati sul piano familiare e relazionale, che vengono spesso “parcheggiati” fino al raggiungimento dell’età utile per cercarsi un lavoro. Nelle classi in questione dell’Istituto non erano stati fatti interventi negli anni precedenti e i docenti confidavano nel nostro aiuto per migliorare il clima in classe e per aiutare gli allievi a pensare di più, renderli più consapevoli, meno aggressivi e più disponibili a collaborare sul piano comportamentale e sul lavoro scolastico.
Gli insegnanti non si ponevano obiettivi immediati (punto 9) anche se ovviamente speravano nell’efficacia dell’ intervento, nè facevano fantasie di qualcosa di miracoloso e risolutivo. Le loro maggiori aspettative erano quelle di poter svolgere al meglio l’attività didattica, indurre gli allievi a collaborare di più durante le lezioni, contenere il loro senso di fallimento ed impotenza, aiutare gli studenti ad affrontare la depressione e i comportamenti dirompenti e gli episodi di bullismo, infine motivarli di più allo studio delle discipline.
Dalle riunioni e dalla raccolta delle informazioni, idee e percezioni degli insegnanti emergeva che gli altri soggetti o agenti coinvolti nella risoluzione del problema potevano essere individuati: genitori degli allievi considerati responsabili della cattiva educazione dei loro figli e insegnanti delle scuole medie inferiori del territorio circostante che non informavano in modo appropriato e adeguato gli allievi del terzo anno sulle difficoltà che avrebbero incontrato nella scuola superiore, soprattutto nelle discipline teoriche rispetto a quelle pratiche (punto 10). Si verificava un fatto molto significativo: gli allievi più indisciplinati facevano emergere atteggiamenti scissi, ossia se durante le lezioni teoriche creavano tensioni con i loro insegnanti non stando mai fermi e attenti, uscendo dalla classe o colludendo con gli allievi più indisciplinati e così via, durante le esercitazioni pratiche di laboratorio assumevano comportamenti adeguati e talvolta esemplari dimostrandosi motivati e responsabili.
La nostra proposta sul coinvolgimento dei genitori al problema comportamentale dei loro figli poteva trovare una risposta attraverso una sensibilizzazione da attuare attraverso delle riunioni plenarie con loro per parlare delle funzioni genitoriali, dei problemi evolutivi, delle difficoltà che i giovani incontrano nella scuola nella fase critica dell’adolescenza. La proposta condivisa dagli insegnanti, che avevano tentato anni addietro di contattare i genitori in riunioni plenarie, non era tuttavia percorribile per le assenze ripetute dei genitori a tali assemblee. L’unica possibilità che rimaneva era la convocazione dei genitori in singoli colloqui per parlare di alcuni allievi più a rischio sul piano comportamentale e sul profitto scolastico. Gli insegnanti delle scuole medie non sarebbe stato possibile coinvolgerli sia perché non sempre disponibili a partecipare ai “gruppi di continuità”, sia, soprattutto, per la dispersione delle scuole sul territorio e per i costi organizzativi troppo alti che tali gruppi avrebbero comportato (punto 11).
Nel nostro caso a seguito dell’ incarico ricevuto dall’istituzione, non è stato difficile individuare che la scuola finanziava i progetti d’intervento, entro un budget prefissato in anticipo all’inizio dell’anno scolastico (punto 12 e 13).
La nostra idea per un intervento nelle classi si è concretizzata dopo una attento esame del problema nella nostra equipe di psicologi coinvolti nel progetto e dopo aver ascoltato gli insegnanti, il dirigente scolastico e gli allievi, precedentemente preparati al lavoro che avremmo svolto insieme (punto 14).
Dopo aver raccolto i consensi, le possibili alleanze e analizzate le difese e aver riflettuto, restituendo agli insegnanti quello che avevamo pensato e capito, si è elaborata insieme a loro una proposta operativa d’intervento così concepita (punto 15):
- un percorso di gruppo-classe in 8 incontri di 1 h. e 40 ;
- una cadenza ogni tre settimane con gli allievi divisi in due piccoli gruppi;
- la presenza degli insegnanti nell’ora di lezione coincidente con l’orario dei gruppi;
- incontri plenari all’inizio, a metà percorso e alla fine con i due gruppi degli allievi
riuniti;
- incontri con i consigli di classe per coinvolgere nel progetto tutti gli insegnanti.
Il lavoro di gruppo consisteva nella creazione di un “luogo” fisico e mentale che partendo da elementi grezzi potesse diventare un contenitore pensante adatto a trasformare le emozioni aggressive e i pensieri primitivi in un qualcosa di più mentalizzato e elaborabile dagli allievi. Questo anche attraverso il lavoro relazionale basato sulla discussione di argomenti cari agli allievi come ad esempio: i rapporti fra loro e gli insegnanti, l’uso delle droghe e dell’alcool, sull’amicizia, sull’amore, i rapporti con i genitori e così via. Il gruppo-classe era importante che potesse essere trasformato da “gruppo fondato sugli assunti di base” (W. R. Bion 1971), dove predominano le difese e i comportamenti più istintivi, pulsionali e primitivi, in un “gruppo di lavoro,” dove l’apparato per pensare i pensieri di ognuno potesse riuscire ad acquisire maggiore conoscenza di sé con l’obiettivo di creare un clima migliore. La nostra idea condivisa con gli insegnanti era quella di attivare nelle classi un processo gradualmente più maturo aperto all’esame di realtà, guardando alla propria e all’altrui esperienza emozionale in modo consapevole e responsabile. Il nostro intento era quello di aiutarli ad uscire lentamente da un comportamento costantemente egocentrico, narcisistico e conflittuale, con agiti quotidiani che travolgevano loro stessi e i loro insegnanti, imparando l’alfabetizzazione delle emozioni più elementari e a pensare con sentimento alle relazioni nell’ esperienza condivisa insieme nei piccoli gruppi.
Un lavoro come quello da noi proposto è chiaro che aveva una sua efficacia e una ricaduta nel tempo, non quantificabile nè verificabile qualitativamente nell’immediato perché occorre una maturazione temporale che garantisca un cambiamento a livello individuale e di gruppo. Tuttavia abbiamo constatato nel corso di alcuni mesi (monitoraggio e verifica), per esempio, che una classe, apparentemente refrattaria a qualsiasi intervento, ha successivamente elaborato una trasformazione dei contenuti emozionali e per conseguenza comportamentali, sottolineati dai loro insegnanti, sia a livello di singoli allievi che della classe come insieme (punti 16 - 18).
Si può, dunque, concludere che il lavoro portato avanti con fatica e impegno ha poi dato dei risultati che anche gli insegnati coinvolti nel progetto hanno riconosciuto.
Dopo aver presentato questo modello di intervento, passeremo ad illustrarne altri che vengono effettuati seguendo lo stesso modello.
La proposta operativa d’intervento psicologico annuale è orientata come principio di base a “creare le condizioni per un miglioramento del clima relazionale” all’interno della classe e per potenziare nei docenti le loro competenze empatiche e di comunicazione con gli alunni. «Quando si parla di mettersi nei panni di un altro, s’intende proprio l’empatia, ma si descrive anche un processo d'inserimento di una parte di sé, della propria capacità di autopercezione, all’interno di un’altra persona – in particolare è inserita quella parte di sé che è in grado di fare esperienza, allo scopo di poter accedere, in fantasia, all’esperienza dell’altro».
Uno degli interventi che viene proposto e attuato riguarda la formazione dei docenti. Questo intervento fa riferimento al metodo della “work discussion” che prevede la “presentazione” al gruppo dei docenti, da parte di uno di loro a turno, di un’osservazione scritta e dettagliata del lavoro svolto in classe, riferito ad un singolo alunno o riferita ad un piccolo gruppo d'alunni o all’intera classe, per sottoporla alla discussione (della durata di un’ora ad osservazione) dei partecipanti e del conduttore con formazione psicoanalitica. In sostanza si analizza una qualsiasi situazione di lavoro che si ritiene appropriata alla discussione del gruppo dei docenti, dove si cerca di ascoltare ciò che essa ci suscita sul piano emotivo e relazionale, al fine di condividerne i contenuti, le emozioni per poi formulare, attraverso il raggiungimento del “focus” del problema, delle ipotesi di lavoro condivise. Ciò consente agli insegnanti di acquisire una più ampia conoscenza dei propri alunni al fine di creare quel clima necessario per attuare strategie educative appropriate e individualizzate o di gruppo. Questa attività permette anche di individuare situazioni a rischio che necessitano di interventi mirati da attuarsi nei servizi territoriali. All’interno di questa attività formativa si collocano anche gli “incontri di continuità” dei docenti dei diversi ordini di scuola. La continuità ci offre uno strumento prezioso per accompagnare situazioni di disagio scolastico e sociale degli allievi nel delicato momento del passaggio fra un “contenitore e l’altro” per garantire al bambino il mantenimento di una sua storia condivisibile fra i docenti che lo lasciano e docenti che lo accolgono.
Un altro intervento cardine è rappresentato dalla consulenza psicologica a scuola attraverso lo sportello di ascolto rivolto agli insegnanti, genitori e allievi.
Il colloquio, come strumento psicologico, segna il passaggio da una psicologia prettamente sperimentale, laboratoristica che era applicata a differenti situazioni e problemi “così com’era”, ad una psicologia professionale (privata e istituzionale) che si propone in una dimensione autonoma e aperta all’altro. Essa utilizza, oltre alle competenze del professionista psicologo e/o psicoterapeuta, quelle capacità empatiche e di ascolto emotivo, caratteristiche della persona e che si possono migliorare attraverso la formazione specifica e un training nell’area dello sviluppo umano e dell’età evolutiva, una qualità speciale del sentire corroborata dall’esperienza, dall’esercizio osservativo e dalla pratica clinica con i bambini, gli adolescenti, le famiglie ed i gruppi.
La consulenza psicologica che si avvale dello strumento psicoanalitico cerca di sondare la natura profonda e talvolta inconscia dei rapporti e delle relazioni che si instaurano nella famiglia fra i figli e i genitori e/o nella scuola fra gli studenti e gli insegnanti.
La consulenza a scuola, che può essere ripetuta più volte per l’approfondimento dei problemi (3 fino al massimo 5 incontri della durata di 50/60 minuti), in un setting protetto e privato, è rivolta:
1) agli insegnanti che possono avvalersene anche come Team per capire le problematiche emergenti nella classe, quelle inerenti alle difficoltà di un alunno o alunna sul piano comportamentale e/o degli apprendimenti. Essa assume spesso la forma di una “supervisione” del loro lavoro ma talvolta sono analizzati anche i problemi relazionali fra colleghi e/o con i genitori degli studenti e/o con l’istituzione;
2) ai genitori degli allievi per aiutarli a capire il comportamento dei loro figli, le difficoltà di apprendimento e dei rapporti familiari, le difficoltà a fare crescere i ragazzi, soprattutto nei passaggi fra un ordine di scuola e l’ altro e/o durante certe fasi dello sviluppo, come il passaggio dalla prima infanzia alla seconda, il periodo della latenza o dell’età pubere e quelli dell’ infanzia e dell’adolescenza, quando iniziano ad emergere le istanze di distacco e di autonomia che i genitori spesso non sono preparati ad affrontare. Si può prevedere anche una forma di consulenza partecipata sul modello della dr.ssa Vallino, dove la consulenza viene fatta prima con la coppia dei genitori, poi con un genitore e il bambino (mamma), poi con l’altro genitore (padre), con il bambino singolo e infine per la restituzione un ultima seduta con entrambi i genitori. Tutto ciò per comprendere meglio le relazioni all’interno e all’esterno della famiglia e quelle intrapsichiche del bambino con i singoli genitori ( D. Vallino 2009).
3) ai ragazzi pre-adolescenti e adolescenti, con l’assenso dei genitori o degli insegnanti, per aiutarli attraverso l’ascolto ad affrontare le loro difficoltà di crescita fisica-emotiva, le conflittualità, le paure circa le trasformazioni del proprio corpo, per sostenere un naturale processo di costruzione di una loro identità e del processo di distacco dai genitori e dalla famiglia che pone sempre alcune difficoltà da ambedue le parti. Ed ancora l’aiuto è rivolto per sostenere l’integrazione con le parti di se stessi e/o con figure di relazione che sono talvolta vissute in modo conflittuale e ambivalente (gli adulti), per accogliere il “disagio” e cercare di risolvere le problematiche più legate all’attività scolastica nelle loro relazioni con i pari o con gli insegnanti o con i genitori, per le difficoltà di apprendimento e/o di comportamento nell’ambito dell’Istituzione scolastica o nella classe.
Il modello per la consulenza allo sportello con i ragazzi pre-adolescenti delle scuole medie e adolescenti della scuola superiore descritto è simile a quello che nacque a Londra negli anni ’60 denominato “Young People Counseling Service” (YPCS) della Tavistock Clinic, ossia un servizio di consulenza per i giovani che fu attivato per venire incontro ai bisogni dei giovani in difficoltà e che fu incorporato nel servizio sanitario nazionale inglese nel 1969. E’ tutt’oggi un servizio gratuito che si rivolge a tutti i giovani compresi nella fascia d’età fra i 16 e i 30 anni che presentino problemi personali o interpersonali e vogliano discuterne con qualcuno che ha competenza sulla materia psicologica. La richiesta può essere motivata per affrontare problemi scolastici/universitari o personali (relazioni difficili nel nucleo familiare, distacco da esso, inizio dei rapporti sentimentali o con i pari, crisi di adattamento alla scuola o all’Università, ecc.).
Come principio il servizio di consulenza allo sportello segue l’idea che il consulente psicologo vede in genere per 3/5 incontri il ragazzo o la ragazza, dicendo chiaramente fin dall’inizio che verranno offerti tre o cinque incontri per “pensare insieme”, per un’esplorazione dei problemi e per aiutarlo ad affrontarli. L’idea è di fare con il giovane la “mappa” della sua struttura interna e capire quale tipo di relazioni interne lui abbia e che, poi, inevitabilmente, proietta sulla realtà esterna vedendo o dando un significato alla realtà a seconda di ciò che lui ha dentro. Il rapporto fra i due soggetti della relazione di consulenza rimane ad un livello non troppo profondo per non rischiare di entrare in un rapporto psicoterapeutico dove il transfert e la dipendenza creerebbero difficoltà a porre termine al lavoro psicologico.
In quanto “consulenza”, il rapporto deve rimane tale perchè è un “servizio non di terapia e non medico”. Nel caso in cui alla fine del rapporto il ragazzo o la ragazza desiderassero approfondire di più i propri stati emotivi e relazionali e/o emergessero problemi psicopatologici, si indirizza la persona ad un collega psicologo-psicoterapeuta. In conclusione, il servizio di consulenza presuppone che i pre-adolescenti e gli adolescenti abbiano “delle parti adulte”, capaci di riflettere sull’esperienza emotiva, abbastanza sviluppate, se, invece, persiste un atteggiamento infantile e queste parti adulte non ci sono o sono troppo acerbe per emergere, diventa difficile attuare un rapporto di questo genere.
Laddove si evidenzi la necessità di un’osservazione delle dinamiche di gruppi-classe per contestualizzare il disagio degli alunni e dei docenti, si prevedono osservazioni in classe da parte dello psicologo scolastico della durata di circa un’ora, concordate con gli insegnanti sul modello dell’Infant Observation elaborato da Ester Bick. . Questo metodo serve fondamentalmente a capire e a conoscere lo sviluppo naturale del bambino nel suo ambiente familiare e sociale, con riferimento a tutte le istituzioni che presiedono alla scolarizzazione e dove il bambino soggiorna e interagisce con gli altri. Il metodo dell’Infant Observation è utile non solo come strumento diagnostico al fine di prevenire il disagio, ma anche per comprendere ogni forma di interazione umana. Esso non si propone di modificare dall’esterno l’ambiente dove sono accolti e accuditi i bambini, ma serve principalmente a riflettere sulle emozioni che circolano in un certo contesto e sulle difficoltà interattive del bambino e del suo educatore. Il metodo dell’ Infant Observation, applicato nell’istituzione scolastica, assume un valore particolare nel momento in cui i protocolli osservativi vengono discussi nel gruppo di lavoro degli operatori sotto la guida di un conduttore con formazione psicoanalitica. In questo contesto il gruppo diventa luogo di contenimento delle ansie degli operatori, uno spazio per la comprensione della crescita emotiva dei bambini e di chi si occupa di loro.
Successivamente al lavoro osservativo in classe, sono previsti incontri di restituzione con gli insegnanti per concordare con loro le strategie da seguire.
Le attività sopra esposte assumono la forma di un’azione preventiva che può essere approfondita ulteriormente attraverso un monitoraggio dell’alunno o degli alunni con problematiche emergenti, anche in collaborazione con i servizi territoriali della ASL e la famiglia.
Per quanto riguarda l’intervento rivolto ai genitori si prevede un lavoro di gruppo attraverso momenti di riflessione, generalmente della durata di due ore, su varie tematiche, quali: l’ integrazione, la genitorialità, la crescita e la trasformazione evolutiva dei figli, ai rapporti con la scuola, all’apprendimento, al comportamento e così via. Altri interventi possono essere proposti dai genitori su tematiche da loro richieste.
Per concludere, vorremmo precisare che il presente lavoro rappresenta un tentativo di dare una spiegazione al complesso e articolato lavoro dello psicologo nella scuolae alle frequenti difficoltà delle relazioni e della comunicazione esistenti fra allievo e docente, fra docente e genitori, fra insegnanti e Istituzione scolastica. Tenendo poi presente che la "comunicazione" avviene in ogni relazione umana, nell’insegnamento essa viene usata prevalentemente come trasmissione del sapere. Spesso, come abbiamo potuto constatare, questo passaggio fallisce perchè la mente dell' insegnante è spesso
concentrata sulla trasmissione della conoscenza e non tiene conto dei fattori emozionali che sono invece presenti in ogni tipo di apprendimento.
Abbiamo inoltre presentato dei possibili modelli di intervento dello psicologo per facilitare questa trasmissione e questo incontro fra chi trasmette il sapere e chilo riceve. Una buona comunicazione favorisce questo incontro, il suo fallimento porta invece ad una serie di reazioni quali: lo scontro quando l’ allievo reagisce con
aggressività, chiusura e rifiuto quando l' alunno assume un atteggiamento di difesa o di abbandono scolastico, infine disagio o addirittura disturbo psicopatologico quando il bambino ha un blocco dello sviluppo.

Un buon lavoro di prevenzione del disturbo dell’ apprendimento e delle relazioni richiede da parte della scuola e dei suoi operatori (insegnante, psicologo, dirigente scolastico, educatore) una capacità di analisi della lettura dei segnali che il bambino è in grado di dare già in età molto precoce.
Le esperienze fatte in altri ambiti e contesti scolastici, come quella degli asili nido, ci hanno mostrato la difficoltà di decodificare e di dare una risposta ai primi segnali di disagio. Si è potuto vedere, per esempio, che le difese degli educatori di fronte alle manifestazioni di disagio del bambino piccolo, solo dentro l' istituzione, si esprimono attraverso agiti che tendono a risoluzioni pratiche, non avendo gli strumenti adeguati alla lettura del mondo interno del bambino.
Le risposte possono essere, invece, come la nostra esperienza sul campo ci ha mostrato, un’ adeguata sensibilizzazione all’ascolto, alla riflessione e alla valutazione, rispettando i tempi necessari all’elaborazione delle emozioni circolanti nella relazione del bambino con l’ educatore.
La nostra esperienza ha messo inoltre in rilievo la difficoltà emotiva degli insegnanti, quando sono soli e non aiutati, ad accedere alla relazione col proprio allievo. Il docente si trova, invece, facilitato a pensare ai propri sentimenti quando è aiutato a conoscere e capire ciò che avviene dentro e fuori di lui. Abbiamo constatato, infatti, che gli insegnanti si sentono meno soli attraverso l’esperienza dello sportello di consultazione o quella condivisa dei seminari di work discussion, dove, come si è visto, si affrontano nel gruppo di lavoro i problemi emotivi che insorgono nelle relazioni con gli alunni, i genitori e l’istituzione.
L’idea di scrivere questo articolo come team è nata dal confronto del nostro lavoro nella scuola e nell’ ambito del nostro lavoro quotidiano nei nostri studi professionali dove spesso affluiscono bambini e adolescenti con problemi di rapporto con il contesto scuola. Ci è infatti sembrato utile e necessario porre all’ attenzione di genitori e insegnanti le problematiche emergenti nella scuola e non rivolgersi soltanto al gruppo degli esperti del settore .
Sarebbe nostra intenzione nel prosieguo continuare a scrivere per approfondire tematiche sulla scuola, soffermandoci sugli interventi e gli strumenti usati ed offrendo la possibilità di aprire un dibattito con gli interlocutori interessati in un forum o su un blog dove possono essere riportate idee, proposte e domande alle quali come team potremmo dare risposte. Si creerebbe, pertanto, uno spazio utile anche per un confronto continuo sui temi della scuola e sulla convivenza scolastica che ci sembrano vitali per il nostro vivere civile.

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G. PETTER, Lo psicologo nella scuola, Giunti Editore, Milano 2004.
QUADERNI DI PSICOTERAPIA INFANTILE n. 4: diretti da Carlo Brutti e Francesco Scotti, edizioni , Borla, Roma 1981.
M. L. RAINERI, Il metodo di rete in pratica, Erickson, Trento 2004
SALZBERGER - WITTEMBERG, G. WILLIAMS POLACCO, E OSBORNE, L’esperienza emotiva nel processo di insegnamento e di apprendimento, Liguori Editore, Napoli 1987
B. TAGLIACOZZI, Lo psicologo nella scuola, Babele n. 8 gennaio-aprile 1998, Periodico quadrimestrale dell' Associazione Sammarinese degli Psicologi (RSM), anno V.
D. VALLINO, Fare psicoanalisi con genitori e bambini, edizioni Borla, Roma, 2009.
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