Tavola Rotonda del 27 aprile 2012. Dove Morivano i Dannati 1.
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Tavola Rotonda del 27 aprile 2012. Dove Morivano i Dannati 1.
“DOVE MORIVANO I DANNATI”
TAVOLA ROTONDA DEL 27 APRILE 2012
DI FRANCESCO SOLDI
SCUOLA DI PSICOTERAPIA ERICH FROMM
TAVOLA ROTONDA DEL 27 APRILE 2012
DI FRANCESCO SOLDI
SCUOLA DI PSICOTERAPIA ERICH FROMM
Perché la cultura occidentale, ha affermato che la follia
era la verità denudata dell’uomo,
e tuttavia l’ha posta in uno spazio neutralizzato e pallido,
ove era come annullata
Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica
Il dott. Ezio Benelli, direttore della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, apre l’incontro sulla condizione degli asili per il disagio mentale, nella loro storia prima e dopo la Legge 180 del 1978.
Successivamente, la parola passa al Dott. Vittorio Biotti, psicologo e psicoterapeuta, il quale intraprende una disamina storica sulla situazione della follia e dei manicomi in Toscana. Egli riprende la distinzione di Foucault tra età classica e Rinascimento nell’atteggiamento nei confronti del folle, secondo la quale durante tutto il Seicento il folle era considerato ben diversamente, con più accettazione; inoltre si valorizzava “l’esperienza tragica” della follia, vista cioè come diversità della visione del mondo. Attraverso una notevole ricerca dei documenti esistenti, Biotti ha cercato di ritrovare, nella realtà toscana, la veridicità delle ipotesi di Foucault: è emerso che il folle più antico ritrovato, risulta essere tale Giuntino da Signa (metà del Trecento), il quale si era macchiato dell’uccisione di un uomo. Il fatto interessante, però, risulta essere l’atteggiamento della famiglia, rappresentata dai fratelli, i quali difendevano Giuntino dalla condanna in quanto folle e indemoniato, e quindi non condannabile, poi definito solo matto dal frate esorcista dell’Abazia di Vallombrosa, consultato a tal proposito. Nella metà del Seicento, in Toscana, nasce la prima “Casa Pia dei Pazzerelli”, Santa Dorotea; e poi successivamente il secondo Santa Dorotea e il Bonifazio. In generale, le istituzioni toscane atte ad “ospitare” i folli nascono in un clima di grandiosità e ricche di propositi, ma immancabilmente poi finiscono per fallire nei loro intenti. Ma quali caratteristiche avevano coloro che venivano rinchiusi in queste strutture, e da chi erano rinchiusi? Il folle era colui che non sapeva parlare, che non prendeva i Sacramenti, che “dava di matto”, e la sua destinazione più comune era il carcere: i folli, infatti, si ritrovano nei processi e nelle decisioni familiari (“se non obbedisci alla famiglia vai in carcere”) ed erano raggruppati assieme a prostitute e vagabondi. Le celle destinate ad ospitare la pazzia, però, erano peggio di altre. Inoltre, nel Seicento, il folle restava in carcere a discrezione del giudice: l’opinione più rilevante, in proposito, era infatti quella del magistrato, “peritus peritorum”, sommo artefice del destino dei folli, di fronte al quale nemmeno la testimonianza del medico acquisiva più rilevanza di quella del sacerdote o della famiglia stessa. Successivamente, emerge un particolare modo di elaborare il lutto, ovvero un passaggio dalla morte alla vita: dove c’era il carcere vengono costruite abitazioni. Al posto del Carcere delle Stinche di Firenze, chiuso a furor di popolo, raso al suolo quasi non si volesse vedere la follia che racchiudeva, sorse l’attuale Teatro Verdi.
Il Dott. Benelli, ricollegandosi a quanto detto a proposito dei folli considerati anche indemoniati, posseduti, come nel caso di Giuntino da Signa, nota come ancora oggi, ragazzi con problematiche vengono condotti dall’esorcista. Inoltre, negli attuali OPG, il tempo di degenza indeterminato esiste sempre, ovvero non si sa quanto può durare il tempo di cura, creando una inquietante somiglianza con la durata dell’internamento nelle strutture del Seicento.
Il Dott. Carlo Catagni, psichiatra, passa poi ad illustare come la gestione della follia sia un problema sociale regolato da leggi; nell’antichità le famiglie risolvevano il problema del folle al suo interno (organicismo e spiritualismo come cause della follia); alla fine del Medioevo si assiste invece ad un cambiamento del modello sociale, che vede l’affermarsi di una bassa tolleranza nei confronti dei comportamenti devianti. Nel 1575 l’Act di Elisabetta I prescrive la costruzione in ogni contea di una House of Correction, mentre nel 1656 nasce l’Hopital General di Parigi. In generale, le istituzioni non sono per le classi dominanti, ma per tutte quelle categorie sociali accomunate dalla povertà (vagabondi, mendicanti, ecc.). Inoltre, il folle diventa colui che viene internato in manicomio, non tanto colui che compie stranezze, mentre la medicina si propone unicamente l’esclusione dei propri assistiti dalla comunità. Si afferma così il cosiddetto trattamento morale, ovvero una terapia rigidamente rieducativa, per tornare a padroneggiare istinti e passioni: nel 1840 Leuret afferma che il trattamento morale è l’unico trattamento possibile per curare la malattia mentale, mentre nel 1856 Connolly propone la teoria del “no restraint”, che prevede l’abolizione di ogni strumento coercitivo meccanico e insiste sul trattamento morale, mantenendo però l’isolamento. In Italia prevalgono invece le ipotesi organicistiche del disturbo mentale: per tutto il XIX sec. vi è una forte insistenza sulla localizzazione cerebrale come sede della pazzia, anche se le lesioni potevano non essere profonde e stabili. La legge 36 del 14 febbraio 1904 stabilisce l’internamento definitivo (non si usciva se non era cessata la pericolosità per sé o per gli altri) ; all’ingresso del manicomio si perdono i diritti civili. All’inizio degli anni 60 del Novecento con l’avvento dei neurolettici si comincia a pensare non solo ad assistere, ma anche a curare i malati. Nel 1968, la legge 431, prima modifica alla legge 36, prevede la possibilità di ricoveri volontari e organizza le strutture territoriali per seguire il paziente ed i familiari dopo le dimissioni. Inoltre, si assiste anche a cambiamenti nella società civile oltre che nella cultura psichiatrica, ovvero si comincia a prendere consapevolezza del manicomio come strumento di potere. Nel 1978, la legge 180 sancisce la chiusura totale delle strutture manicomiali e la gravità della malattia, e non più la pericolosità, diventa il criterio per l’obbligo di trattamento sanitario.
La discussione poi si apre sul disagio vissuto dai ricoverati nei manicomi, nonché sulla situazione attuale, non certo incoraggiante, all’alba anche dell’imminente chiusura degli OPG; il pubblico interviene con esempi di dolore e indignazione nei confronti della vita nei manicomi, e sul problema della situazione attuale, sulla mancanza o povertà del servizio offerto dalle strutture presenti oggi. Il Dottor Benelli esprime il disagio di tutti, condensato nella domanda: “Cosa succederà quando gli OPG chiuderanno?”. Forse la prospettiva di un intervento bio-psico-sociale può rappresentare una possibile risposta nel modo di curare la malattia mentale. Il dibattito si chiude su un’ultima considerazione emersa, in particolar modo sottolineata dal Dott. Biotti, ma condivisa da tutti i presenti, su un particolare tipo di paura che emerge nel trattamento e nell’approccio con chi soffre di disagi mentali, che è la paura del paziente. Il disagio espresso dal Dott. Biotti è essenzialmente quello di non riuscire a dare una “pensabilità” a quello che sta succedendo nella relazione terapeutica con un paziente, riuscendo solamente a “sentire”; è essenzialmente una paura che nasce da dentro e non si sa da dove viene, ma ben presente. Il Dott. Catagni propone un possibile modo per affrontare tale paura, che può essere quello di dire apertamente al paziente che in quel momento sta mettendo paura al terapeuta, e così facendo egli non è in grado di aiutarlo. Il Dott. Benelli sostiene che effettivamente esistono pazienti che fanno stare bene e pazienti che fanno stare male. La Dott.ssa Irene Battaglini sottolinea inoltre come tale paura può definirsi anche come contagio, anche affettivo, con il paziente, in quanto portatore, assieme al terapeuta, di una relazione importante e affettiva con il terapeuta stesso.
Successivamente, la parola passa al Dott. Vittorio Biotti, psicologo e psicoterapeuta, il quale intraprende una disamina storica sulla situazione della follia e dei manicomi in Toscana. Egli riprende la distinzione di Foucault tra età classica e Rinascimento nell’atteggiamento nei confronti del folle, secondo la quale durante tutto il Seicento il folle era considerato ben diversamente, con più accettazione; inoltre si valorizzava “l’esperienza tragica” della follia, vista cioè come diversità della visione del mondo. Attraverso una notevole ricerca dei documenti esistenti, Biotti ha cercato di ritrovare, nella realtà toscana, la veridicità delle ipotesi di Foucault: è emerso che il folle più antico ritrovato, risulta essere tale Giuntino da Signa (metà del Trecento), il quale si era macchiato dell’uccisione di un uomo. Il fatto interessante, però, risulta essere l’atteggiamento della famiglia, rappresentata dai fratelli, i quali difendevano Giuntino dalla condanna in quanto folle e indemoniato, e quindi non condannabile, poi definito solo matto dal frate esorcista dell’Abazia di Vallombrosa, consultato a tal proposito. Nella metà del Seicento, in Toscana, nasce la prima “Casa Pia dei Pazzerelli”, Santa Dorotea; e poi successivamente il secondo Santa Dorotea e il Bonifazio. In generale, le istituzioni toscane atte ad “ospitare” i folli nascono in un clima di grandiosità e ricche di propositi, ma immancabilmente poi finiscono per fallire nei loro intenti. Ma quali caratteristiche avevano coloro che venivano rinchiusi in queste strutture, e da chi erano rinchiusi? Il folle era colui che non sapeva parlare, che non prendeva i Sacramenti, che “dava di matto”, e la sua destinazione più comune era il carcere: i folli, infatti, si ritrovano nei processi e nelle decisioni familiari (“se non obbedisci alla famiglia vai in carcere”) ed erano raggruppati assieme a prostitute e vagabondi. Le celle destinate ad ospitare la pazzia, però, erano peggio di altre. Inoltre, nel Seicento, il folle restava in carcere a discrezione del giudice: l’opinione più rilevante, in proposito, era infatti quella del magistrato, “peritus peritorum”, sommo artefice del destino dei folli, di fronte al quale nemmeno la testimonianza del medico acquisiva più rilevanza di quella del sacerdote o della famiglia stessa. Successivamente, emerge un particolare modo di elaborare il lutto, ovvero un passaggio dalla morte alla vita: dove c’era il carcere vengono costruite abitazioni. Al posto del Carcere delle Stinche di Firenze, chiuso a furor di popolo, raso al suolo quasi non si volesse vedere la follia che racchiudeva, sorse l’attuale Teatro Verdi.
Il Dott. Benelli, ricollegandosi a quanto detto a proposito dei folli considerati anche indemoniati, posseduti, come nel caso di Giuntino da Signa, nota come ancora oggi, ragazzi con problematiche vengono condotti dall’esorcista. Inoltre, negli attuali OPG, il tempo di degenza indeterminato esiste sempre, ovvero non si sa quanto può durare il tempo di cura, creando una inquietante somiglianza con la durata dell’internamento nelle strutture del Seicento.
Il Dott. Carlo Catagni, psichiatra, passa poi ad illustare come la gestione della follia sia un problema sociale regolato da leggi; nell’antichità le famiglie risolvevano il problema del folle al suo interno (organicismo e spiritualismo come cause della follia); alla fine del Medioevo si assiste invece ad un cambiamento del modello sociale, che vede l’affermarsi di una bassa tolleranza nei confronti dei comportamenti devianti. Nel 1575 l’Act di Elisabetta I prescrive la costruzione in ogni contea di una House of Correction, mentre nel 1656 nasce l’Hopital General di Parigi. In generale, le istituzioni non sono per le classi dominanti, ma per tutte quelle categorie sociali accomunate dalla povertà (vagabondi, mendicanti, ecc.). Inoltre, il folle diventa colui che viene internato in manicomio, non tanto colui che compie stranezze, mentre la medicina si propone unicamente l’esclusione dei propri assistiti dalla comunità. Si afferma così il cosiddetto trattamento morale, ovvero una terapia rigidamente rieducativa, per tornare a padroneggiare istinti e passioni: nel 1840 Leuret afferma che il trattamento morale è l’unico trattamento possibile per curare la malattia mentale, mentre nel 1856 Connolly propone la teoria del “no restraint”, che prevede l’abolizione di ogni strumento coercitivo meccanico e insiste sul trattamento morale, mantenendo però l’isolamento. In Italia prevalgono invece le ipotesi organicistiche del disturbo mentale: per tutto il XIX sec. vi è una forte insistenza sulla localizzazione cerebrale come sede della pazzia, anche se le lesioni potevano non essere profonde e stabili. La legge 36 del 14 febbraio 1904 stabilisce l’internamento definitivo (non si usciva se non era cessata la pericolosità per sé o per gli altri) ; all’ingresso del manicomio si perdono i diritti civili. All’inizio degli anni 60 del Novecento con l’avvento dei neurolettici si comincia a pensare non solo ad assistere, ma anche a curare i malati. Nel 1968, la legge 431, prima modifica alla legge 36, prevede la possibilità di ricoveri volontari e organizza le strutture territoriali per seguire il paziente ed i familiari dopo le dimissioni. Inoltre, si assiste anche a cambiamenti nella società civile oltre che nella cultura psichiatrica, ovvero si comincia a prendere consapevolezza del manicomio come strumento di potere. Nel 1978, la legge 180 sancisce la chiusura totale delle strutture manicomiali e la gravità della malattia, e non più la pericolosità, diventa il criterio per l’obbligo di trattamento sanitario.
La discussione poi si apre sul disagio vissuto dai ricoverati nei manicomi, nonché sulla situazione attuale, non certo incoraggiante, all’alba anche dell’imminente chiusura degli OPG; il pubblico interviene con esempi di dolore e indignazione nei confronti della vita nei manicomi, e sul problema della situazione attuale, sulla mancanza o povertà del servizio offerto dalle strutture presenti oggi. Il Dottor Benelli esprime il disagio di tutti, condensato nella domanda: “Cosa succederà quando gli OPG chiuderanno?”. Forse la prospettiva di un intervento bio-psico-sociale può rappresentare una possibile risposta nel modo di curare la malattia mentale. Il dibattito si chiude su un’ultima considerazione emersa, in particolar modo sottolineata dal Dott. Biotti, ma condivisa da tutti i presenti, su un particolare tipo di paura che emerge nel trattamento e nell’approccio con chi soffre di disagi mentali, che è la paura del paziente. Il disagio espresso dal Dott. Biotti è essenzialmente quello di non riuscire a dare una “pensabilità” a quello che sta succedendo nella relazione terapeutica con un paziente, riuscendo solamente a “sentire”; è essenzialmente una paura che nasce da dentro e non si sa da dove viene, ma ben presente. Il Dott. Catagni propone un possibile modo per affrontare tale paura, che può essere quello di dire apertamente al paziente che in quel momento sta mettendo paura al terapeuta, e così facendo egli non è in grado di aiutarlo. Il Dott. Benelli sostiene che effettivamente esistono pazienti che fanno stare bene e pazienti che fanno stare male. La Dott.ssa Irene Battaglini sottolinea inoltre come tale paura può definirsi anche come contagio, anche affettivo, con il paziente, in quanto portatore, assieme al terapeuta, di una relazione importante e affettiva con il terapeuta stesso.
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