GLI ARGINI DELLA PAROLA DI ANDREA GALGANO
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GLI ARGINI DELLA PAROLA DI ANDREA GALGANO
ARGINI, silloge di Andrea Galgano, Lepisma 2012
recensione di Irene Battaglini per la Rubrica L'immaginale
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Argini, una silloge di cinquanta componimenti poetici scritti da Andrea Galgano per la raffinata Lepisma, che ospita anche Dacia Maraini e Andrea Zanzotto. La prefazione è di Davide Rondoni, maestro e amico di Andrea Galgano, il giovane autore e critico letterario che vive a Potenza e lavora a Firenze.
Alla domanda «perché “argini”?», si può tentare un’interpretazione che oscilla tra il metaforico e lo psicoanalitico. Il concetto di argine rimanda a qualche cosa, la morfologia di un argine è la storiografia di un fiume in quello specifico tratto in quella specifico tempo, argine è il Rorschach del suo dipanarsi e lasciare tracce, argine è una stele e nello stesso tempo un segno. E’ il segno del fiume che scrive su stesso le memorie dei suoi attraversamenti. Uno stigma linguistico che vuole essere sudario e foglio, calamaio e pennino. Galgano scrive e descrive variamente gli argini in ciascuna delle cinquanta poesie, senza mai ripetere un solo lemma, rovesciandolo abilmente in ogni metafora senza con questo desemantizzarlo mai. E’ operazione di grande disciplina, di meticolosa ricerca linguistica, che non nasconde l’impeto talentuoso e passionale, semmai lo evidenzia. Sono poesie dolci, con una particolare bontà, quasi chiedessero perdono all’italiano per i salti categoriali che l’autore chiede a questa lingua difficile, di letterati e di santi. Una lingua che se fosse materia, sarebbe marmo il più pregiato travestito di ardesia, con solo l’illusione della cedevolezza e la bianca coscienza di non potersi ibridare frettolosamente neppure in questo nostro tempo di barbarie “comunicativa”: anzi resiste ad ogni tentazione di commistione stilistica. La silloge Argini non comunica, esprime un’identità piena. Vive, sente, accade. Accade cadendo nella sabbia di un confine labile di deserto, accade inciampando tra le ali di un volo stellato, accade ribadendo un amore ferito dentro di sé ma non ferendo mai il cuore, che resta intatto, come vivesse per sé.
Argini, su volute di pietra, immagini insolite, decadenti, come di pittura scremata, abrasa. Si arricciano sotto la nebbia lungo i ruscelli introvabili, si stendono come altipiani assolati a tener dentro i fiumi giganteschi che transitano come immense creature che respirano, ebbre di memoria di milioni di anni. Argini, testimoni di amore e di piccoli baci di neve, argini voluttuosi di Arno, calpestati e offesi da un istmo, aggrappati alle cataratte contro dighe dalle spaventate bocche di acqua violata.
Argine è limite nello sconfinamento, è aurora in un letto di foglie brunite dall’autunno nel crepitare di una sonorità crepuscolare. «la veglia che sfavilla e/crepita nel mare il suo astro/vanto di orizzonti»
Argine è rispondenza umorale e affezione sottile contro il dilagare di una identità diffusa e senza speranza: nella «notturna grazia acerba» il poeta fa affiorare l’obbedienza al perenne inizio. Perché se per Pavese “è bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante”, in Galgano bellezza è tautologia di grazia e di chiarori che non spaventano, di inizi di libertà che stanno bene dentro al quotidiano, che lo amano, ne compiono il destino.
Argine di letto di fiume, argine di letto di madre. Luogo eccellente per la relazione oggettuale che si muove continuamente in un dare-avere osmotico, vocazionale, generoso intrinsecamente senza sponde. «Sono diamanti di peripli/i sipari dei tuoi tornanti/la trasparenza dell’alba/schiusa nei lembi/dove mostri/i portali delle vele/e la tela scarlatta delle scogliere»
Parole che sono sponde, sottigliezze acute e intelligenti, andirivieni di soggetti che frequentano i bordi della soggettività «non sa/forse gioca/controluce/e non ha forma che non sia forma/del tempo dell’uva sui voli».
Le immagini si susseguono come capitelli sul margine del tempio,« L’aria / alla finestra dei venti sembra ammarare / la sua didascalia» a costellare vivezza, a chiedere ascolto, a domandare la cura per una bellezza che non si estinguerà.
Alla domanda «perché “argini”?», si può tentare un’interpretazione che oscilla tra il metaforico e lo psicoanalitico. Il concetto di argine rimanda a qualche cosa, la morfologia di un argine è la storiografia di un fiume in quello specifico tratto in quella specifico tempo, argine è il Rorschach del suo dipanarsi e lasciare tracce, argine è una stele e nello stesso tempo un segno. E’ il segno del fiume che scrive su stesso le memorie dei suoi attraversamenti. Uno stigma linguistico che vuole essere sudario e foglio, calamaio e pennino. Galgano scrive e descrive variamente gli argini in ciascuna delle cinquanta poesie, senza mai ripetere un solo lemma, rovesciandolo abilmente in ogni metafora senza con questo desemantizzarlo mai. E’ operazione di grande disciplina, di meticolosa ricerca linguistica, che non nasconde l’impeto talentuoso e passionale, semmai lo evidenzia. Sono poesie dolci, con una particolare bontà, quasi chiedessero perdono all’italiano per i salti categoriali che l’autore chiede a questa lingua difficile, di letterati e di santi. Una lingua che se fosse materia, sarebbe marmo il più pregiato travestito di ardesia, con solo l’illusione della cedevolezza e la bianca coscienza di non potersi ibridare frettolosamente neppure in questo nostro tempo di barbarie “comunicativa”: anzi resiste ad ogni tentazione di commistione stilistica. La silloge Argini non comunica, esprime un’identità piena. Vive, sente, accade. Accade cadendo nella sabbia di un confine labile di deserto, accade inciampando tra le ali di un volo stellato, accade ribadendo un amore ferito dentro di sé ma non ferendo mai il cuore, che resta intatto, come vivesse per sé.
Argini, su volute di pietra, immagini insolite, decadenti, come di pittura scremata, abrasa. Si arricciano sotto la nebbia lungo i ruscelli introvabili, si stendono come altipiani assolati a tener dentro i fiumi giganteschi che transitano come immense creature che respirano, ebbre di memoria di milioni di anni. Argini, testimoni di amore e di piccoli baci di neve, argini voluttuosi di Arno, calpestati e offesi da un istmo, aggrappati alle cataratte contro dighe dalle spaventate bocche di acqua violata.
Argine è limite nello sconfinamento, è aurora in un letto di foglie brunite dall’autunno nel crepitare di una sonorità crepuscolare. «la veglia che sfavilla e/crepita nel mare il suo astro/vanto di orizzonti»
Argine è rispondenza umorale e affezione sottile contro il dilagare di una identità diffusa e senza speranza: nella «notturna grazia acerba» il poeta fa affiorare l’obbedienza al perenne inizio. Perché se per Pavese “è bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante”, in Galgano bellezza è tautologia di grazia e di chiarori che non spaventano, di inizi di libertà che stanno bene dentro al quotidiano, che lo amano, ne compiono il destino.
Argine di letto di fiume, argine di letto di madre. Luogo eccellente per la relazione oggettuale che si muove continuamente in un dare-avere osmotico, vocazionale, generoso intrinsecamente senza sponde. «Sono diamanti di peripli/i sipari dei tuoi tornanti/la trasparenza dell’alba/schiusa nei lembi/dove mostri/i portali delle vele/e la tela scarlatta delle scogliere»
Parole che sono sponde, sottigliezze acute e intelligenti, andirivieni di soggetti che frequentano i bordi della soggettività «non sa/forse gioca/controluce/e non ha forma che non sia forma/del tempo dell’uva sui voli».
Le immagini si susseguono come capitelli sul margine del tempio,« L’aria / alla finestra dei venti sembra ammarare / la sua didascalia» a costellare vivezza, a chiedere ascolto, a domandare la cura per una bellezza che non si estinguerà.
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